L’attività vulcanica delle Isole Eolie
Sulle altre isole si riscontrano solamente modeste attività fumaroliche ed esalative, mentre l’attività sismica che le caratterizza è decisamente minore rispetto alle aree vulcaniche più attive.
L’ultima eruzione di Lipari risale al 580 prima di Cristo, mentre a Vulcano l’eruzione più recente è avvenuta nel 1888-1890. Negli ultimi anni anche la caldera parzialmente sommersa di Panarea ha mostrato una significativa ripresa dell’attività di degassamento sottomarino, facendo temere una ripresa dell’attività vulcanica di maggiore entità. Stromboli è il vulcano più attivo: i suoi crateri sommitali producono attività esplosiva di bassa energia ogni 20-35 minuti circa, chiamata appunto “attività stromboliana”.
L’arcipelago delle Eolie, con le sue sette isole, è la parte emersa di un vasto complesso vulcanico, prevalentemente sottomarino, che si estende per circa 200 chilometri e che costituisce una struttura ad andamento arcuato rivolta, con la sua parte concava, verso il centro del Mar Tirreno.
Le parti emerse del complesso eruttivo (le isole), si sono formate nell’ultimo milione di anni, mentre le parti sommerse raggiungono età leggermente maggiori: l’età più antica – circa 1,3 milioni di anni – è quella del vulcano sottomarino Sisifo, a nord-ovest dell’isola di Alicudi. Dalla datazione dei prodotti più antichi di ciascuna isola se ne può dedurre l’età di nascita. Nel tirreno meridionale la placca africana scivola sotto quella europea, dando origine all’arco vulcanico delle isole Eolie formando una zona sismica inclinata, che raggiunge sotto il Tirreno la profondità di circa 450 chilometri.
A Lipari Vulcano e a Stromboli il vulcanismo è ancora attivo; nelle altre isole l’attività è cessata tra 5.000 anni e 20.000 anni fa. A Lipari l’ultima eruzione è avvenuta nel 729 d.C., a Vulcano nel 1889-90 e a Stromboli l’attività dura ininterrotta da almeno 2.000 anni. I magmi delle Eolie sono simili a quelli dei vulcani che costituiscono la “cintura di
uoco” circumpacifica. Essi
mostrano, nel tempo, un’evoluzione verso composizioni sempre più basiche (minore contenuto di silice, che è il costituente principale dei magmi) e più ricche di potassio (da andesiti e basalti andesitici, con corteo di daciti e rioliti, fino alle shoshoniti di Vulcano e Stromboli).
Magmi di questo tipo sono caratteristici delle zone di subduzione: dove una placca litosferica oceanica scivola sotto una continentale, originando magmi che risalgono a formare archi di isole (es. Giappone, Indonesia) o cordigliere vulcaniche, come la catena delle Ande, e dando luogo alla generazione di terremoti che si dispongono tipicamente lungo un piano inclinato (piano di Benioff).
Geologia delle Isole Eolie (ISTITUTO NAZIONALE DI GEOFISICA E VULCANOLOGIA)
Nel 1973 è stato proposto che l’arcipelago eoliano facesse parte di un sistema arco-fossa ben definito (Barberi et al., 1973); grazie a studi geofisici e dati vulcanologici è stata individuata una serie di anomalie negative della gravità ubicata parallelamente alla costa ionica calabra. Questo rappresenterebbe il margine tra la placca Eurasiatica e quella Africana, indicando una fossa riempita di sedimenti pelagici; il fronte dell’orogenesi corrisponderebbe alla catena Calabro-Peloritana, mentre l’arcipelago rappresenterebbe il fronte vulcanico. In questo quadro, la piana abissale tirrenica costituirebbe una sorta di bacino di retroarco marginale.
In seguito sono sorti nuovi modelli interpretativi, miranti a ricostruzioni geodinamiche del Mediterraneo centro-meridionale che hanno cercato di tenere conto di tutte le caratteristiche geologiche e geochimico-petrologiche dell’area.
Per spiegare la geologia dell’arco eoliano è necessario inquadrare l’evoluzione dell’intero bacino tirrenico nello spazio degli ultimi 100 Ma, poiché la formazione dell’arco insulare è intimamente legata agli sviluppi della tettonica del bacino del Mediterraneo centrale, risultato dalla spinta differenziale esercitata dalla placca africana verso quella euroasiatica, che ruota su di un polo di rotazione localizzato a largo del Marocco (Dewey et al., 1989).
Circa 100 milioni d’anni fa, l’apertura dell’Oceano Atlantico settentrionale, poneva fine all’espansione della Tetide, innescando la compressione del continente africano verso quello euroasiatico e determinando così la subduzione della crosta oceanica interposta.
La subduzione, durata fino all’Eocene superiore (35-30 Ma), ha portato alla formazione di un arco magmatico tra l’Oligocene ed il Miocene (34 e 13 Ma, Beccaluva et al., 1994) i cui prodotti affiorano oggi in Provenza, in Corsica ed in Sardegna, unite in quel periodo all’attuale territorio francese. Lo studio approfondito della geologia di queste aree ha rivelato l’affioramento di rocce ad affinità tholeiitica (TH) e calcoalcalina (CA) nella Provenza del sud, nella Corsica e nella Sardegna orientale e quello di rocce calcoalcaline alte in potassio (HKCA) e shoshonitiche (SHO) nella Provenza del sud e nel massiccio sardo-corso occidentale. Questa zonazione del magmatismo è spiegabile solamente ipotizzando l’esistenza di una fossa di subduzione, con movimento di crosta oceanica verso N-NW, ubicata davanti a queste terre.
Contemporaneamente, in questa fase veniva prodotta la massima spinta per il sollevamento della catena alpina, con la messa in posto dei corpi plutonici principali. Il procedere della subduzione del Bacino Ligure Piemontese ha portato, a partire dall’Oligocene inferiore (30 Ma), all’apertura del Bacino delle Baleari, interpretabile come un back-arc basin, ubicato alle spalle dell’arco magmatico impostato nel sistema sardo corso provenzale. L’apertura di tale bacino ha segnato l’inizio dello “sfenocasma sardo-corso”, che con rotazione antioraria incentrata nel golfo di Genova, ha portato la microplacca nell’attuale posizione in un intervallo di 10 Ma (Vanossi, 1991).
Questa rotazione ha portato alla compressione e sollevamento delle Alpi Apuane circa 18 Ma (Carmignani et al., 1978). Le unità Liguridi affioranti nei flysh della catena appenninica toscana altro non sono altro se non lembi del fondale della vecchia placca adriatica, impilati dalla tettonica compressiva in quel settore.
Intanto, la rotazione divergente del blocco adriatico rispetto alla microplacca sardo-corsa ha portato, con moti distensivi, alla formazione del bacino del Tirreno settentrionale (Sartori, 1990; Mantovani et al., 1996) sin dal Miocene medio-inferiore, terminando intorno al Messiniano medio (Babbucci et al., 1997), quando ha cominciato ad aprirsi il Tirreno meridionale. Contemporaneamente, un nuovo impulso orogenico, circa 7 Ma, ha portato al sollevamento soprattutto della catena appenninica meridionale, grazie alla rotazione antioraria della regione (Mantovani et al., 1997b). La migrazione verso sud della distensione crostale del bacino del Tirreno, ha portato all’apertura dei piccoli bacini Vavilov e Marsili, costituiti da rocce basaltiche tholeiitiche (4-3.5 Ma e 1.9–1.6 Ma).
A partire dal Quaternario, si è osservata la formazione e lo sviluppo di un nuovo arco magmatico costituito dai prodotti prevalentemente calcoalcalini delle isole Eolie.
Al momento, secondo Serri, (1997), la subduzione sarebbe terminata e i processi collisionali tra le due placche continentali provocherebbero esclusivamente processi di delaminazione crostale, responsabili della “ibridizzazione” dei magmi che hanno generato il magmatismo alcalino potassico dell’area circum tirrenica.
Tra i modelli di ricostruzione dei processi geodinamici avvenuti vanno citati il modello del rifting attivo, che suggerisce che le deformazioni superficiali in una data zona sono causate dalla risalita attiva di materiale astenosferico (nel Tirreno e nel Canale di Sicilia; Locardi, 1988; Grasso et al., 1990). Con quest’ipotesi è possibile giustificare l’elevato flusso di calore rilevato nel Tirreno in due zone con anomalia termica 160 mW/m2, situate rispettivamente a nord ed a sud del 41° parallelo; lo spessore crostale del Tirreno centrale inferiore a 10 km; le anomalie positive di Bouguer (250 mgal) localizzate nelle aree bacinali sei seamounts Magnaghi-Vavilov e Marsili (picchi appartenenti ad un’area di anomalia gravimetrica più vasta caratterizzata da valori superiori a 150 mgal. (Lavecchia et al., 1988); le manifestazioni magmatiche sul fondo del Tirreno meridionale; l’attività sismica nel Tirreno concentrata nel settore meridionale, tra il bacino di Marsili e l’arco Calabro-Peloritano (Gasparini et al., 1985), con ipocentri profondi 500 km, indicanti un piano di Benioff e uno slab in subduzione in direzione NNE-SSO e con inclinazione di circa 60° verso NO (Gasparini et al., 1982).
Tuttavia, non è possibile stabilire se questo processo sia stato attivo o passivo, cioè conseguenza secondaria di altri meccanismi dinamici esterni.
Il modello denominato “slab pull” ipotizza che tutte le deformazioni superficiali osservate nella zona arco-fossa siano guidate dallo sprofondamento gravitativo della litosfera subdotta al di sotto di quella zona. L’ipotesi sembrerebbe spiegare alcune caratteristiche importanti come l’arretramento della fossa, la formazione di un bacino di retroarco e l’accrescimento della catena (Malinverno e Ryan, 1986). In realtà, questo modello è poco realistico; la subduzione della litosfera, infatti, molto difficilmente può provocare contemporaneamente distensione nella zona di retro arco e compressione nella zona della fossa (Hassani et al., 1997).
C’è infine, il modello che suppone la formazione di strutture arcuate associate a tettonica distensiva interna e compressiva al loro esterno e l’arretramento della fossa dovuto ad un campo di sforzi compressivi paralleli alla catena in sollevamento. Questo tipo di interpretazione può facilmente rendere conto delle caratteristiche osservate nella zona di retroarco; la compressione lungo il fronte esterno è causata dallo spostamento verso l’esterno della catena, attraverso rotazione o estrusione laterale dei blocchi e la distensione si sviluppa lungo la scia dei blocchi in estrusione. L’arretramento della fossa è causato dalla sovrapposizione forzata della catena sull’avampaese adiacente e dal momento flettente causato dall’azione della catena sulla litosfera subdotta (Albarelloet al., 1997; Mantovani et al., 1997a). Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che tutti i sistemi arco-fossa nell’area mediterranea sono orientati parallelamente alla direzione del campo di sforzi di compressione confinanti: gli archi appenninici sono paralleli alla direzione di convergenza N-S tra la placca africana e quella eurasiatica; l’arco dell’Egeo è parallelo alla convergenza E-W tra il gruppo Anatolia-Grecia e la placca adriatica; la catena dei Carpazi e dei Balcani, nell’Oligocene-Miocene era, probabilmente, parallela al piano di convergenza SE-NW tra il sistema Anatolia-Arabia-Eurasia, così come l’arco alpino eocenico era, probabilmente, parallelo alla convergenza SW-NE tra l’Africa e l’Europa nell’Oligocene.
Inquadramento geologico dell’area siciliana
Nell’area del Mediterraneo centrale, l’avampaese africano è rintracciabile nel fondo del Canale di Sicilia; affiora in superficie nel Blocco Pelagico (Grasso et al., 1990). La parte centrale del Blocco Pelagico è attraversata da un’area di sforzi distensivi d’età tardo miocenica-recente costituenti il sistema di rift di Pantelleria. Questo sistema litosferico spessa circa 23 km, comprende le isole di Malta, Pantelleria e Linosa; queste ultime due rappresentano la parte emersa di imponenti edifici vulcanici.
Ad est del Blocco Pelagico si trova la scarpata di Malta: una grande zona tettonicamente attiva, separante il Blocco Pelagico dal bacino oceanico di tipo MORB dello Ionio, con spessore di circa 13 km (Finetti, 1982). Alcune di queste faglie dirette, formano verso nord una struttura nota come “Faglia Tindari-Letojanni” (Ghisetti, 1979), lungo la quale si sono impostate le isole eoliane di Vulcano, di Lipari e di Salina ed i centri sottomarini ad esse associati (Frazzetta et al., 1982; Barberi et al., 1994).
A nord del rift di Pantelleria, l’avampaese africano lo troviamo composto da circa 6000 metri di rocce carbonatiche tra le città di Ragusa e Siracusa. Qui, lungo i principali lineamenti tettonici, ad andamento NE-SO e NO-SE, si sono impostati gli apparati vulcanici ad affinità alcalina, costituenti il distretto vulcanico ibleo, di età pliocenico-quaternaria (Civetta et al., 1984; Civetta et al., 1986).
Proseguendo verso nord, la piattaforma carbonatica iblea è attraversata dal Graben di Gela ad andamento NE-SO e delimitante il fronte più esterno dei sovrascorrimenti delle unità terrigene delle Sicilidi e le rocce metamorfiche delle unità Calabridi, appartenenti all’Appennino Maghrebide, sollevatosi durante il Neogene a seguito della collisione tra le placche africana ed eurasiatica. In questo sistema montuoso, la tettonica è prevalentemente trascorrente destra con direzione NO-SE; tra queste, la “Faglia Kumeta-Alcantara” interseca verso est un sistema sismicamente attivo di faglie dirette a gradinata ad andamento N-S, interessanti il basamento carbonatico ibleo (“Faglia di Acireale”) ricoperto dalle lave e piroclastiti del monte Etna.Proprio l’intersezione tra sistemi di faglie differenti potrebbe avere favorito la risalita dei magmi alcalini etnei. Questo vulcanismo sviluppatosi circa 700-600 ka, presenta grandi affinità geochimiche con il più meridionale magmatismo ibleo, sulla cui natura è stato scritto molto (Tonarini et al., 1996; Cristofolini et al., 1981; De Vivo et al., 1990; De Rosa et al., 1991).
Le isole Eolie si trovano sul lato interno dell’arco Calabro-Peloritano e costituiscono, a loro volta, il margine esterno dei bacini peritirrenici di Gioia e Cefalù. Le isole sorgono su crosta continentale metamorfica e su graniti ercinici e pre-ercinici che hanno probabilmente avuto un ruolo importante nella genesi dei magmi eoliani, come evidenziato dagli xenoliti rinvenuti nelle vulcaniti (Honnorez e Keller, 1968; Keller, 1974; Keller, 1980a; De Vivo et al., 1987; Barker, 1987; Esperança et al., 1992; Francalanci e Santo, 1993; Peccerillo et al., 1993; Clocchiatti et al., 1994; Del Moro et al., 1998) etc.Un’ulteriore complicazione per il quadro della tettonica dell’area è rappresentata dal sistema delle faglie dirette della Calabria a direzione N-S (Crati) e NNE-SSO (Reggio Calabria – Gioia Tauro) (Westway, 1993), il sistema di faglie a direzione N-S che bordano il piccolo bacino di Paola ed il sistema a direzione NNE-SSO che delimita il bacino di Gioia ed il Canyon di Stromboli e, per finire, il sistema di faglie plio-pleistoceniche a direzione E-O delimitanti il margine meridionale del Tirreno ed il sistema di strutture a direzione NNE-SSO e NE-SO che bordano il Canale di S. Vito ed il Bacino di Cefalù (Boccaletti et al., 1990).
Lo studio di geofisica della zona centrale dell’arcipelago di Barberi et al., (1994) ha ipotizzato che le strutture profonde di questo settore siano legate alla formazione di un graben delimitato da un sistema di faglie dirette, orientate N-S, impostate su un basamento pre-vulcanico e lungo le quali si sono trovano la maggior parte dei centri vulcanici. Le isole di Vulcano, Lipari e Salina sorgono all’interno di questo graben,
il cui basamento è stato ribassato di circa 3000-3500 m e nel quale sono presenti molti corpi vulcanici secondari e/o sepolti. Questo settore dell’arcipelago è attraversato dalla linea “Tindari-Letojanni”, attiva sin dal Pliocene (Fabbri et al., 1980). Ad essa si deve la tettonica distensiva che interessa le isole di Vulcano e Lipari, lungo le direttrici NNO-SSE ed ENE-OSO. Inoltre, i cambiamenti del chimismo, registrati negli ultimi 40 ka che segnano il passaggio verso magmi sempre più alcalini, potrebbero suggerire un aumento dei moti distensivi nella struttura a graben che si andrebbe a sviluppare in una struttura tipo bacino di pull a part.
Più recentemente, complessi studi geofisici, hanno ottenuto informazioni geologico-strutturali lungo questa linea tettonica nell’area dei Monti Peloritani; si valuta che questa faglia appartenga ad un sistema tettonico esteso per 400 km che a meridione, in prossimità dell’Etna separa il dominio continentale siciliano, in sollevamento, da quello oceanico ionico, in subsidenza. Mentre alle Eolie, la propagazione verso nord della faglia è avvenuta circa 200 ka, favorendo la risalita magmatica e il ringiovanimento dell’attività a Salina e a Panarea e la costruzione del complesso Lipari-Vulcano. Ad ovest della linea tettonica il vulcanismo è estinto e la sismicità è superficiale, mentre, lungo la linea ed ad est di essa persistono i fenomeni vulcanici e la sismicità è intermedia e profonda.